Alexssandra Minissale | NotLove - STOP violenza sulle donne
Robin Norwood, nel suo libro Donne che amano troppo, ci ricorda:
«Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. […] Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenze di una infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo. Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo. Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo. A dispetto di tutta la sofferenza e l’insoddisfazione che comporta, questa è una esperienza tanto comune che quasi siamo convinte che una relazione intima debba essere fatta così».
Nonostante non mi piaccia associare la parola amore a dinamiche relazionali disfunzionali e/o violente – sarebbe puro controsenso – questo testo della psicoterapeuta americana R. Norwood racchiude l’emblema della dipendenza affettiva, delle relazioni non sane. Ciò che lei definisce ‘troppo amore’ altro non è che l’attaccamento disfunzionale ad un’altra persona, la pretesa di chiamare ciò amore e di crederlo tale.
A proposito di ciò, la Teoria dell’impotenza appresa di Seligman (1975) cerca di spiegare i comportamenti passivi tenuti da determinati soggetti in condizioni sofferenti o di disagio: ogni soggetto che verrà collocato in un contesto spiacevole diventerà passivo e accetterà tutti gli stimoli dolorosi che gli si presenteranno, anche quando il loro evitamento sarà possibile.
Walker (1980) adottò questa teoria alla fine degli anni ‘70, per spiegare perché le donne rimangono con i loro partner violenti. Secondo la psicologa americana, infatti, la Sindrome della donna picchiata comprende due elementi: il Ciclo della violenza e la Sindrome dell’impotenza appresa. Le dinamiche di una relazione violenta, difatti, sarebbero riconducibili a un ciclo di fasi che portano la vittima a un disorientamento che le impedisce di valutare lucidamente la situazione di violenza che subisce. La convinzione che la relazione che si sta vivendo sia non solo accettabile, ma anche disperatamente necessaria per la propria sopravvivenza è la convinzione di ogni donna all’interno di una relazione disfunzionale.
«Quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto perché siamo dominati dalla paura: paura di restare soli, paura di non essere degni d’amore, paura di essere abbandonati o ignorati…».
L’amore, nelle sue manifestazioni più sane, rappresenta un naturale e profondo bisogno per ogni essere umano. Quando, però, un rapporto affettivo comincia a diventare un’ossessione e quando si altera quell’equilibrio tra il dare e il ricevere, l’amore può trasformarsi in una forma di sofferenza fino a sfociare in una vera e propria dipendenza affettiva.
Nel 1945 lo psicanalista Fenichel con il termine amore dipendenti indica quelle determinate persone che necessitano dell’amore nello stesso modo in cui altri necessitano di droga, cibo o alcol. Infatti la dipendenza, prima di tutto, è immobilità. Si stabilisce una relazione di forte bisogno ad un livello tale che in assenza di questa fonte si sperimenta un profondo senso di vuoto e inadeguatezza. È il disperato tentativo di trovare una stampella alla nostra autonomia. Il percorso è sempre lo stesso: nello slancio verso l’indipendenza si cerca a tutti i costi di evitare il distacco e il dolore che ne consegue, fino a trovarsi in una condizione di assoluta dipendenza che produce un nuovo sentimento angosciante.
Quando una persona si dedica completamente all’altra preferendo il suo benessere al proprio, non ci troviamo più in una relazione sana. La persona che si ama in questo caso viene idealizzata e diventa ragione di vita: tutto il resto passa in secondo piano e si può arrivare a fare e accettare veramente di tutto, anche umiliazioni e manipolazioni, pur di non perdere questa relazione e questa persona a cui è stato affidato quasi il compito di colmare i vuoti affettivi dell’infanzia. Il soggetto dipendente si trova in una condizione di assoluta dedizione all’altro e vede in ogni altro rapporto una forma di pericolo perché è ossessionato dall’idea di perdere il partner. Un dipendete affettivo non riesce a beneficiare dell’amore nella sua profondità e intimità e semplicemente crede di non meritarlo. La differenza sostanziale tra un soggetto dipendente e un soggetto non dipendente sta proprio nel fatto che il primo ha bisogno dell’amore per vivere e sopravvivere.
«Quando l’amore incatena, fa soffrire, nega la libertà dell’individuo, allora siamo di fronte a quel fenomeno che la psicologia contemporanea definisce dipendenza affettiva o, in inglese, love addiction».
La domanda sorge spontanea: perché si resta ancorati a qualcosa che ci ferisce terribilmente? Anche perché, in questo tipo di relazioni, è quasi sempre presente mancanza di rispetto, ostilità, incompatibilità, non condivisione di bisogni e desideri: tutto il contrario di un amore sano. Si resta ancorati a relazioni di questo tipo perché la dipendenza affettiva nasce dal rifiuto e se ciò non vi fosse probabilmente la storia finirebbe presto. Più aumentano difficoltà e sofferenza e più nasce nel dipendente affettivo l’estrema voglia di continuare a lottare per non perdere questa relazione: le aspettative sono troppo alte e per niente realistiche, insomma.
Quasi sempre all’origine di una dipendenza affettiva c’è un trauma infantile: il bisogno di guarire un’antica ferita e di essere risarciti dei bisogni emotivi non soddisfatti, del rifiuto e dell’umiliazione ricevuti. Una storia familiare caratterizzata da carenze di affetto tende a ripetere gli atteggiamenti vissuti dai genitori nella vita di coppia al fine di cercare di ottenere una risposta emotiva che non è stata ottenuta prima.
«La ricerca deve cominciare a casa, all’interno di sé. Nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo noi stessi, perché quando nel nostro vuoto andiamo cercando l’amore, possiamo trovare solo un altro vuoto. […] Ogni cosa si realizza in un contesto, compreso il nostro modo di amare. Dobbiamo essere consapevoli del modo pericoloso in cui la nostra società concepisce l’amore e opporci all’immaturità superficiale e frustrante nelle relazioni personali che esalta. Abbiamo bisogno di impegnarci a sviluppare rapporti personali più aperti e maturi di quelli che i nostri media culturali sembrano approvare e a rinunciare all’agitazione e al tumulto emotivo, per avere in cambio un’intimità più profonda».
Spesso le nostre relazioni e i nostri approcci alla vita altro non sono che riflesso di quello che c’è nella parte più profonda di noi. La nostra infanzia e il rapporto con i nostri genitori, quello che pensiamo di noi stessi, ciò che pensiamo di meritare, se ci crediamo degni di ricevere amore, stima, rispetto e serenità. È soltanto nel momento in cui cambiamo le nostre convinzioni che la nostra vita cambia, è quando smettiamo di dirci bugie, è quando impariamo ad amare noi stessi prima di provare ad amare gli altri.
Fonti:
- Norwood R., Donne che amano troppo, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2013.
- Guerreschi C., La dipendenza affettiva. Ma si può morire anche d’amore?, Franco Angeli, Milano 2015.
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