top of page

È stato un raptus. FALSO!

eafeducarealfemmin
Alexssandra Minissale | NotLove - STOP violenza sulle donne

Nei casi di femminicidio esistono regole precise sull’uso corretto del linguaggio giornalistico e distogliere l’attenzione da quanto accaduto non è una di queste. Ogni volta che una donna viene uccisa per mano di un uomo, tra le pagine di giornale e nei media, si tende a romanzare l’accaduto, a minimizzarlo, quasi a giustificarlo, a spostare l’attenzione sul gossip, invece che sulla tragedia avvenuta. È come se leggessimo un’altra storia: quella di chi quel gesto l’ha compiuto, non di chi l’ha subito.

L’assassino non viene, nella maggior parte dei casi, definito tale: non è un uomo che ha tolto la vita ad una donna ma è un orco innamorato, una scimmia cattiva, un gigante buono che ha agito per un amore non corrisposto. Un raptus, un momento di rabbia e di non lucidità, giustificazioni su giustificazioni. Perché l’ha ammazzata? Lei l’ha provocato, lei l’ha illuso, lei l’ha tradito? Se è così forse allora se l’è cercata. Una donna è morta ma non riceve l’attenzione che le spetta neanche in questo caso, si indaga una sua possibile colpa, anche se si conosce già il colpevole. Nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. Lei resta soltanto una poverina. Poverina, doveva fare più attenzione, poverina, doveva lasciarlo prima, poverina, non doveva farlo arrabbiare, poverina, non doveva accettare quell’ultimo appuntamento, poverina, non doveva farlo ingelosire così tanto.

La violenza sulle donne non è un fenomeno emergenziale, ma strutturale. Dall’inizio dell’anno sono già 39 le vittime di femminicidio e ogni volta ci ritroviamo davanti allo stesso modello di narrazione che assolve retoricamente il carnefice e che cerca di giustificarne la violenza: a partire dal titolo dell’articolo, dalla scelta di parole che, in modo inevitabile, ne omette altre. Le parole sono importanti e l’utilizzo della lingua non è mai innocente. Quando scegliamo di esprimerci attraverso determinate espressioni stiamo in realtà edificando una struttura concettuale che va ben oltre la comprensione immediata. Attraverso le parole facciamo da specchio alla nostra cultura e alla nostra società: è nostro dovere plasmarla oggi.

L’amore non scatena la violenza: basta collegare un femminicidio ad un raptus, ad un delitto passionale. È estremamente pericolosa la continua invisibilizzazione della colpa maschile in un articolo che racconta la violenza di genere. È pericoloso continuare a dare lezioni di vita alle donne anche da morte, come se si chiedesse loro di smetterla di farsi ammazzare. Non dovete educare le donne a salvarsi da una possibile violenza, dovete educare gli uomini e la società tutta affinché ciò non avvenga più. È di impegno comune eliminare ogni radice culturale fonte di disparità: la violenza di genere non è un problema delle donne e non spetta solo a loro occuparsene.

Raccontare un femminicidio per come è accaduto è il primo passo per un radicale cambiamento culturale e, in questo, i media e i giornali hanno un ruolo fondamentale: possono scegliere se alimentare o contrastare la violenza di genere. Oggi però, e sempre più spesso, la narrazione a cui assistiamo continua ad influenzare la percezione collettiva di questo fenomeno strutturale. La giustificazione della violenza non è mai legittima e la retorica del mostro ha stancato un po’ tutti.


Il violento non è un malato, è il figlio sano del patriarcato!


Il 27 novembre del 2017 venne firmato, in collaborazione con il Ministero alle pari opportunità, un Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione, contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini. Con questo manifesto i professionisti e le professioniste del settore affermano di: «Impegnarsi per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali e giuridiche».

Nel punto 10 si ritiene prioritario: «L’obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitando:

a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;

b) termini fuorvianti come “amore”, “raptus”, “follia”, “gelosia” e “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;

c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a “mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”;

d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando

la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” ecc.;

e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da

chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona».

È fondamentale non esporre la vittima ad una violenza secondaria. Non è stata uccisa da un raptus, è stata uccisa da un uomo. La violenza di genere non è follia, ha radici nella cultura del potere e del possesso. Sbagliare il linguaggio può provocare danni gravissimi: può contribuire a rafforzare pregiudizi e stereotipi, causando un dolore supplementare alle vittime.








Link video utile sull’argomento, di Flavia Carlini: https://www.instagram.com/reel/CnhBwSHj8IJ/?igshid=MmJiY2I4NDBkZg%3D%3D


Libro consigliato sull’argomento: Vagnoli C., Poverine. Come non si racconta il femminicidio, Einaudi 2021.






Contatti: eaf.educarealfemminismo@gmail.com

Seguici su instagram: about.eaf



© E A F - Educare al femminismo

Comments


Post: Blog2_Post
  • Instagram

©2021 di EAF ◦ EDUCARE AL FEMMINISMO

bottom of page